Il termine “fedeltà” si collega, concettualmente e semanticamente, ai termini “fede” e “fiducia”, essendo connotato, da sempre, da una colorazione innanzitutto etica e religiosa.
Nel linguaggio comune, esso ha due significati, in stretta correlazione fra loro: «fedele è anzitutto chi osserva la fede data, chi corrisponde alla fiducia di cui gode o è costante negli affetti; inoltre, soprattutto con riferimento a determinati atti umani e al loro risultato (come le copie, le traduzioni, le testimonianze, ecc.), la fedeltà è sinonimo di esattezza e di perfetta rispondenza ad un modello … Dare la fede significa … ingenerare negli altri la certezza, o quanto meno la fiducia, che un fatto sia vero o si avveri».
Con riguardo all’art. 2105 c.c., la dottrina non ha mancato di osservare in primis come la sua rubrica, Obbligo di fedeltà, risulti, rispetto al contenuto della norma ivi contenuta, «ambigua», se non addirittura «fuorviante» ed «inutile». Ed è proprio a causa di tale “discrasia” che le posizioni degli Autori che si sono occupati dell’esegesi dell’articolo in esame divergono in maniera sostanziale sulla natura e sulla portata degli obblighi astensivi ivi contenuti: non sono pochi, infatti, coloro che sostengono l’idea di un dovere di fedeltà che si estende ben al di là del dettato normativo, configurandolo piuttosto come un «atteggiamento psicologico di fattiva cooperazione» nei confronti del creditore, in collegamento con i principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1375 e 1175 c.c. Conseguenza di questa impostazione è che «il prestatore di lavoro sarebbe tenuto non solo a seguire le direttive del datore per un corretto svolgimento della sua prestazione, ma anche a garantire con ogni mezzo la realizzazione dell’aspettativa del creditore ed il conseguimento del risultato da lui atteso».
Il riconoscimento della natura contrattuale del rapporto di lavoro è stato peraltro un passaggio fondamentale per la progressiva rivisitazione degli obblighi di cui all’art. 2105 c.c., nell’ottica del superamento della concezione di un asservimento personale del prestatore agli interessi dell’impresa, intesa come comunità; è stato infatti giustamente sottolineato come una dimensione «totalizzante» della fedeltà, inquadrata in termini di «potenziamento» della buona fede 116, alla stregua di un obbligo principale del lavoratore, «aggrav[i] in modo intollerabile i doveri di solidarietà scaturenti dal comune rapporto obbligatorio».
La giurisprudenza, tuttavia, sembra propendere, nella maggior parte dei casi, per una concezione estensiva della fedeltà: i giudici, infatti, nel collegare – quasi si trattasse di un rafforzamento stilistico – l’obbligo in questione ai doveri di buona fede e correttezza, giungono a ritenere le fattispecie contemplate dall’art. 2105 come meramente esemplificative, con il conseguente obbligo, per il lavoratore, di astenersi non soltanto dai comportamenti ivi espressamente vietati, ma anche da tutti quelli che, «per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso».
Andando ad analizzare più da vicino il contenuto della norma in questione, la dottrina, con riguardo alla prima parte della disposizione, avente ad oggetto il divieto di concorrenza definita da diversi Autori «differenziale» — precisa che si tratta di nozione distinta, ma non antitetica, rispetto a quella, tipica del diritto commerciale, di concorrenza sleale, dí cui all’art. 2598 c.c.: mentre quest’ultima si connota per un’illiceità intrinseca delle condotte poste in essere, la prima comprende attività di per sé anche lecite, ma vietate ad alcuni soggetti che, in virtù della particolare posizione rivestita all’interno dell’impresa, possono trarre un indubbio vantaggio nel carpire informazioni concernenti la realtà aziendale.
Le numerose pronunce che fondano il divieto di cui all’art. 2105 sul rilievo dell’«indispensabile presupposto fiduciario di un’efficiente e leale collaborazione» tra datore e lavoratore ritengono che sia sufficiente, per concretizzare la violazione di tale obbligo, la mera preordinazione di un’attività contraria agli interessi del datore di lavoro, come pure l’esistenza di un’attività potenzialmente lesiva, anche se non attualmente produttiva di danno.
Da simili presupposti, breve è il passo per giungere ad annoverare, fra le attività vietate, anche i cc.dd. “atti preparatori”: ad esempio, la mera costituzione di una società per lo svolgimento della stessa attività economica del datore di lavoro, quand’anche tale attività non abbia avuto ancora principio; oppure l’invito rivolto a propri colleghi a trasferirsi presso un’impresa concorrente, quand’anche esso non abbia avuto seguito. Peraltro, secondo alcuni, lo svolgimento di un’attività concorrenziale, seppur ancora in itinere, non rappresenta tanto un «pregiudizio meramente potenziale alle ragioni dell’impresa», quanto piuttosto «un pregiudizio già attuale all’organizzazione, quindi, all’efficienza della stessa».
Al dovere di fedeltà vengono altresì ricondotte, in un’ottica di bilanciamento, alcune fattispecie concernenti l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti, quali il diritto di critica (art. 21 Cost.) e di difesa (art. 24 Cost.). Con riguardo al primo, i giudici sono soliti applicare al rapporto di lavoro i limiti elaborati in ambito giornalistico inerenti ai canoni della continenza formale e sostanziale, che attengono alla correttezza espressiva ed alla verità ed obiettività dei fatti narrati, ritenendo lesivo dell’obbligo di fedeltà l’esercizio del diritto di critica che avvenga con modalità tali che, «superando i limiti del rispetto della verità oggettiva», si traducano in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale, suscettibile oltretutto di provocare, oltre che un danno all’immagine, un consequenziale danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro.
Per quanto riguarda la continenza sostanziale, a fronte di un filone interpretativo che si attesta su un rigore assoluto, non ammettendo né la verità putativa di un fatto, «né la verosimiglianza o la seria attendibilità delle notizie divulgate», alcune sentenze ritengono invece sufficiente la mera «veridicità» dei fatti. La ratio di tale posizione più attenuata si rinviene nella comparazione fra il diritto di critica e quello di cronaca, il cui esercizio, a differenza del primo, «necessita dell’impiego dei mezzi di informazione di massa ed è diretto all’opinione pubblica, per cui la verità oggettiva dei fatti è di importanza basilare» elativo all’impresa, v’è chi ritiene, più cautamente, che lo stesso copra solo le notizie prettamente “tecniche”, che concernono l’organizzazione dell’impresa ed i metodi di produzione
Va da sé, peraltro, che il dovere di fedeltà non possa in alcun modo giustificare l’invocazione, da parte del datore, dell’obbligo di segretezza in ipotesi di comportamenti illeciti posti in essere all’interno dell’impresa: infatti, l’obbligo di fedeltà e quelli, ad esso correlati, di correttezza e buona fede, «devono essere funzionali soltanto in relazione ad una attività “lecita” dell’imprenditore, non potendosi di certo richiedere al lavoratore la osservanza di detti obblighi, nell’ambito del dovere di collaborazione con l’imprenditore, anche quando quest’ultimo intenda perseguire interessi che non siano leciti».
Al termine delle riflessioni sin qui proposte, resta da vedere in che prospettiva si pongano i doveri di cui all’art. 2105 c.c. nel momento in cui il rapporto di lavoro giunge al termine. Ferma restando la possibilità di avvalersi di specifiche disposizioni, questione diversa concerne la possibilità di delimitare temporalmente i divieti contenuti nella norma in esame.
È noto come, di regola, una volta cessato il rapporto di lavoro, il prestatore sia libero di svolgere qualsiasi tipo di attività concorrenziale, fatta salva la permanenza del divieto di divulgare notizie riservate. La possibilità di delimitare temporalmente il divieto di concorrenza oltre la cessazione del rapporto di lavoro costituisce quindi una deroga al principio della libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41, comma 1, Cost., che mira a tutelare «quel patrimonio di cognizioni, esperienze e segreti, che costituiscono una delle più importanti componenti della potenzialità economico-produttiva di una azienda». Tale limitazione avviene, solitamente, mediante un patto di non concorrenza, che deve, ai sensi dell’art. 2125 c.c., esser stipulato in forma scritta; e, dal punto di vista sostanziale, deve esser limitato nel tempo, nell’oggetto e nello spazio, «poiché l’ampiezza del vincolo deve essere tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che non ne compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita»; infine, la pattuizione deve prevedere un congruo corrispettivo per il lavoratore.
La giurisprudenza precisa che il patto di non concorrenza «può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto». Tuttavia, esso è da ritenersi nullo «allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale»; a tale conclusione si perviene anche quando la risoluzione del patto sia rimessa all’arbitrio del datore di lavoro: la norma in esame, infatti, «interpretata secondo i principi generali, anche di derivazione costituzionale (artt. 4 e 35 Cost.), non consente, da una parte, che sia attribuito al datore di lavoro il potere di incidere unilateralmente sulla durata temporale del vincolo, così vanificando la previsione della fissazione di un termine certo; dall’altra, che l’attribuzione patrimoniale pattuita possa essere caducata dalla volontà del datore di lavoro», in quanto «la grave ed eccezionale limitazione alla libertà di impiego delle energie lavorative risulta compatibile soltanto con un vincolo stabile, che si presume accettato dal lavoratore all’esito di una valutazione della sua convenienza, sulla quale fonda determinate programmazioni della sua attività dopo la cessazione del rapporto».
Per quanto riguarda, invece, la tutela della riservatezza aziendale, si osserva come scarsa rilevanza avrebbero dei patti finalizzati a prolungare, in capo al dipendente, un tale obbligo anche alla scadenza del rapporto, poiché il dovere di riservatezza grava sull’ex dipendente anche quando il rapporto di lavoro giunge al termine, sotto forma di responsabilità aquiliana. Dunque, «l’unica vera “estensione” pattizia dell’obbligo legale di riservatezza pare essere solo quella volta ad inibire al lavoratore l’uso o la divulgazione di notizie anche non pregiudizievoli all’impresa», come si rinviene in talune clausole di accordi collettivi.